Cartolina sul viaggiare
Con qualche nota su Palermo e un articolo dedicato a Enzo Sellerio editore
Da più di un anno conservo nel computer in una cartella di “cose interessanti” un pezzo di Agnes Callard uscito sul “New Yorker” e intitolato The case against travel, grossomodo “Processo al viaggio”. L’articolo comincia con un elenco di personaggi famosi che non amavano viaggiare, e lo hanno detto chiaramente: Chesterton, Ralph Waldo Emerson, Pessoa - e poi due che, scrive Callard, “hanno espresso il loro voto con i piedi” muovendosi il meno possibile, Socrate e Kant. Lei è d’accordo con loro e lo spiega con una gran quantità di parole, che si può condensare in una frase: Travel is a boomerang. It drops you right where you started, “il viaggio è un boomerang, ti ributta esattamente nel punto da cui sei partito”. L'idea di base è che, contrariamente a quello che molti pensano, non c’è nessun potere trasformativo in un viaggio “di piacere”, in quello che definiamo ora con un certo disprezzo turismo, anche se turisti o viaggiatori-boomerang un momento o l'altro siamo o siamo stati quasi tutti, magari sotto forma di studenti Erasmus o di convegnisti.
Riassumendo in modo sbrigativo il suo articolo, mi pare che per Callard il viaggio abbia senso solo se ci trasforma, e che ci possa trasformare solo se non prevede un ritorno (emigrazione o esilio; mi verrebbe da pensare pure la morte, e lì la trasformazione è certa). Una posizione così netta suscita per contrasto in me una quantità di domande che mi sembrano ora particolarmente urgenti, forse perché nel 2024 mi sono mossa di più e più a lungo del solito, e nell’ultimo mese, durante le feste di Natale, sono stata dieci giorni a Palermo. Provo a metterle in fila, sapendo che non ho risposte e che dietro ci sono altre domande, pronte a salire in superficie: davvero un’esperienza ha senso solo se comporta un cambiamento? quali forme può assumere questa trasformazione? in che modo un ambiente diverso da quello abituale ci può (se può) far pensare diversamente? e (sempre ammesso che questo avvenga) quanto a lungo resteranno nel tempo le tracce del cambiamento?
Palermo, Palazzo Abatellis, Il Trionfo della Morte
Per andare a Palermo, non avevo un motivo particolare, se non il piacere di ritrovare alcune persone che vedo di rado e il desiderio di conoscere un po’ meglio una città dove ero stata tre o quattro volte, ma sempre velocemente, per non più di quarantott’ore. Quando sono ripartita dalla Sicilia dopo l’Epifania, ho pensato che - tolte Roma, dove vivo da trent’anni, e Genova dove ho vissuto i primi trent’anni - Palermo è adesso la città italiana nella quale ho trascorso più tempo consecutivamente. E ho pensato anche che dieci giorni non sono niente per conoscere una città, tanto più una città che ha alle spalle una storia come quella di Palermo. O più precisamente, nel mio caso dieci giorni sono stati (forse) sufficienti per misurare quanto non sapevo e non so - di Palermo e di tante altre cose. Socrate, che odiava i viaggi (e a cui per inciso Callard ha appena dedicato un libro), non aveva nemmeno bisogno di muoversi, per capirlo.
Potrei chiudere qui, ma diversamente da Callard, non credo che il boomerang torni al punto di partenza uguale a com’era quando è stato lanciato: la fisicità del viaggio, per come la vedo io, non è neutra; c’è qualcosa di sorprendente - e di potenzialmente “mutante” - quando avvertiamo di essere immersi in un altrove a cui non apparteniamo e che ci impone di domandarci perché ci troviamo lì in quel dato momento, e come intendiamo maneggiare questa nostra estraneità. Quando avevo vent’anni, con un’amica sono andata in Marocco, e un giorno a Fes abbiamo incontrato una ragazza marocchina, studentessa universitaria come noi, che ci ha invitato a casa sua, e la sera sono arrivati altri giovani, erano gentili e curiosi, e volevano sapere - appunto - perché eravamo lì, cosa ci aveva portato in Marocco, cosa ne sapevamo. Non erano domande di circostanza, il desiderio di conoscere le ragioni della nostra scelta era reale e con un certo disagio ci siamo accorte di quanto fosse difficile, e tuttavia indispensabile, dare una risposta coerente, ricondurre il nostro viaggio a un senso di responsabilità, se non di necessità. Poi capita nella vita che le decisioni - non parlo solo dei viaggi - si prendano per caso, ma spesso torno con la mente a quella serata a Fes, perché mi aiuta a sperare che anche le scelte casuali possano poi rientrare nella trama del vissuto.
Un altro ricordo di viaggio: nel novembre 1999, trovandomi a Berlino, ho visitato alla Hamburger Bahnhof Collage/Montage, segmento di una grande mostra sull’arte in Germania nel ventesimo secolo organizzata per il decennale della caduta del Muro. Venticinque anni sono passati, e non si è spenta la vibrazione che si percepiva entrando nella grande sala in penombra, dove Christian Boltanski aveva coperto da cima a fondo le pareti con indumenti appartenuti a centinaia o migliaia di persone a me ignote. Qualcosa di simile ho provato un paio di settimane fa a Palermo, passando sotto il voltone di ingresso dello Steri su piazza della Marina e salendo al grande cortile centrale - un senso improvviso di angoscia e di oppressione che lì per lì ho attribuito alla pesante mole squadrata dell’edificio. E forse è così, e forse è perché (ma in quel momento non lo sapevo) l’antico hosterium magnum, costruito all’inizio del Trecento dalla potente famiglia Chiaromonte, fu per quasi due secoli. dal 1601 al 1782, sede dell’Inquisizione spagnola, e dunque di prigionia e di tortura, e le pareti delle celle sono coperte dei graffiti dei penitenziati: parole “di disperazione, di paura, di avvertimento, di preghiera; tra immagini di santi, di allegorie, di cose ricordate o sognate”, avrebbe scritto Leonardo Sciascia all’inizio di Morte dell’inquisitore (Laterza 1964, Adelphi 1992), ricostruzione dell’uccisione di Juan Lopez de Cisneros da parte del carcerato frate agostiniano Diego La Matina in quelle stesse mura.
Palermo, Steri, Soffitto della Sala dei Baroni
Allo Steri, in effetti, quella prima volta ero andata per vedere una mostra interessantissima (e purtroppo oggi conclusa) dedicata all’attività editoriale di Enzo Sellerio su cui ho scritto per il Manifesto un articolo che incollo qui sotto. Molte, purtroppo, le cose che nel pezzo non ho detto, per mancanza di spazio e per senso del limite (mio), di fronte alla vastità e qualità di interessi di Sellerio, un intellettuale nel senso più pieno e forse perduto del termine. A una, però, voglio comunque accennare, ed è che fra le sue imprese, c’è anche un ciclo fotografico dedicato al soffitto della Sala dei Baroni, sempre nello Steri; e su questo soffitto stupefacente, e non noto come si dovrebbe, posso rinviare a un bell’articolo uscito sei anni fa, il 6 febbraio del 2019, sul supplemento domenicale del Manifesto e intitolato Il Soffitto dello Steri di Palermo, per la rinascita. Lo firma Claudio Gulli, oggi direttore di Palazzo Butera, che dopo un restauro lungo e impegnativo, ospita le raccolte di arte antica e contemporanea di Francesca e Massimo Valsecchi: un altro luogo di Palermo da conoscere, per le meravigliose opere che contiene, per il sito stesso, tra Kalsa e Foro Italico, e per le riflessioni che induce sul concetto di collezione rispetto all’idea di museo - assenti, per esempio, i cartellini che indicano il titolo di un pezzo e il nome di chi lo ha creato, in modo che lo sguardo del visitatore sia libero di muoversi in un ambiente, prescindendo dalle gerarchie precostituite. Sarà così? (Del resto, insieme al biglietto viene consegnata all’entrata una guida alle collezioni, che possa venire in soccorso al visitatore, abbacinato da tanta libertà).
Palermo, Palazzo Butera, libreria
Qui chiudo, non per mancanza di materia, ma anzi perché la materia è tanta e gli strumenti a disposizione troppo pochi. So però che a Palermo tornerò, e già questo - con buona pace di Callard - è un segno che il boomerang è tornato a casa, ma sulla sua superficie si sono impressi segni che prima non c’erano.
Enzo Sellerio, una fine scuola dello sguardo
Questo articolo e la scheda che lo accompagna sono usciti sul quotidiano il manifesto mercoledì 8 gennaio 2025
Sulle pareti della Sala delle Verifiche allo Steri di Palermo, dov’è allestita la mostra Enzo Sellerio l’editore (chiude il 12 gennaio: chi può, si affretti), sono appesi tanti piccoli fogli che, in vece di catalogo, offrono informazioni utili e a volte sorprendenti sui tanti volumi esposti e sugli oggetti che li accompagnano. Come le tesserine di un grande mosaico, questi scritti – testimonianze, quarte di copertina, brevi memorie – ricostruiscono la storia di un’avventura intellettuale particolarissima, nata più di cinquant’anni fa per iniziativa di una giovane coppia, Enzo e Elvira Sellerio.
SE IL RUOLO FONDAMENTALE della «signora», come veniva chiamata per antonomasia, è stato più volte riconosciuto (fra l’altro in un volume della collana «La memoria», il numero 1000, uscito poco dopo la sua morte nel 2010), in questa occasione si mette in luce con grande evidenza come la casa editrice sia stata, soprattutto nei decenni iniziali, quasi il precipitato delle attività e degli interessi coltivati da Sellerio con spirito giocoso e insieme serissimo: naturale pensare alla fotografia (a poche decine di metri dallo Steri, alla Galleria di arte moderna un’altra esposizione presenta fino alla fine di febbraio una Antologia dei suoi scatti, molti dei quali celeberrimi) così come naturale è evocare la sapienza grafica; forse non così immediato eppure doveroso ricordare la curiosità insaziabile per gli oggetti e i temi più disparati, il gusto raffinato per la lingua condensato in motti di spirito che a distanza di decenni non hanno perso nulla della loro arguzia; e infine – ma forse sarebbe stato opportuno metterlo per primo – l’amore ossimoricamente appassionato e lucido per la Sicilia.
Non per caso uno dei primi volumi pubblicati dalle Edizioni Esse (così si chiamò tra il 1969 e il 1972 la casa editrice prima che si scoprisse che un altro marchio già portava quel nome) fu una guida, Palermo in tasca, della giornalista Anna Pomar, a cui l’editore ritenne opportuno premettere una nota in cui si legge fra l’altro: «Palermo è una gentildonna aristocratica che è stata costretta a sposarsi svogliatamente con un marito violento e volgare, uno di quei mariti dai quali il divorzio non salva: e quel marito è il cemento armato, il cemento amato dagli speculatori e dai politicanti senza scrupoli, che hanno ucciso con naturalezza le meraviglie della natura, le ville, i parchi, i giardini incantati della città emirale, regale ed imperiale». Decisamente lontana, la nota, per tono e contenuto, dalle abituali premesse alle guide.
E non assomiglia certo alla produzione editoriale italiana di quegli anni (per non parlare di cosa sarebbe venuto poi) la prima collana Sellerio, «La civiltà perfezionata» – nome suggerito da Leonardo Sciascia, nume tutelare insieme a Ignazio Buttitta della neonata casa editrice – i cui libri vengono descritti così: «Volumi formato 14 x 20 a margini intonsi stampati su carta Grifo avorio vergata delle Cartiere Miliani di Fabriano. Copertina in cartoncino. Sovracoperta in carta Ingres Cover illustrata con incisione originale. Protezione in carta pergamyn. Di ogni titolo viene stampata una edizione speciale in tiratura di 100 copie ognuna delle quali contiene un esemplare, numerato e firmato, dell’incisione riprodotta in copertina. L’edizione speciale ha la sovraccoperta e il cofanetto in carta Roma Veronese, color verde pallido».
A vederli ben allineati sul banco che apre la mostra allo Steri, e confrontandoli mentalmente con quello che riempie oggi la vetrina di una libreria, pare impossibile, e tuttavia questi libri trovarono rapidamente il loro pubblico. E pochi anni dopo, nell’autunno del 1978, uno di loro, L’affaire Moro di Sciascia, vendette centomila copie: un best seller con le pagine intonse! (Spiega però un’altra nota allo Steri che alle tremila copie destinate alle edicole delle stazioni fu accluso, debitamente incellofanato, un coltellino levafustelle in legno e acciaio, di quelli in uso nelle farmacie, da dare in omaggio agli acquirenti, per facilitare il taglio delle pagine). Il successo dell’Affaire Moro accelerò la nascita di una nuova collana «agile, economica, che consentisse una più alta diffusione senza però snaturare la qualità e l’impronta della casa editrice». Stiamo citando ancora dai piccoli fogli dello Steri e la collana è ovviamente «La memoria», che sarebbe poi diventata, e ancora resta, l’immagine più immediatamente riconoscibile delle edizioni Sellerio.
Sui titoli, già dall’inizio e con il passare del tempo sempre di più, la scelta finale apparteneva al territorio della «signora», che man mano ne «ha perfezionato gli intenti iniziali, moltiplicato la varietà di titoli, così componendo una biblioteca ideale intesa come mosaico di tante biblioteche ideali». Era però di Enzo Sellerio l’invenzione grafica: «Un miracolo formale nella sua assoluta semplicità, come raccomandava il classicismo tedesco: il piccolo formato, la illustrazione quadrata al centro, i colori del titolo e dell’autore che via via cambiano sul bleu foncé della copertina», come avrebbe detto Piero Violante ai funerali dell’editore nel febbraio del 2012. Di questo miracolo gli editori di tutto il mondo furono ammiratori e a volte imitatori, come confermano sulle pareti dello Steri le testimonianze di Jorge Herralde (Anagrama), Klaus Wagenbach, Vanni Scheiwiller.
Sarebbe però riduttivo, e anzi sbagliato, vedere nella mostra palermitana il tributo a un mondo della carta stampata condannato a un tramonto ineluttabile, tanto è evidente come i libri siano sempre stati per Sellerio cosa viva, veicolo di una conoscenza che, provenendo dal passato, è capace di parlare al presente – come nel caso, tra i volumi in mostra allo Steri, di Dove fiorisce il limone di Antonino Buttitta, dedicato all’archivio dell’artigiano Ignazio Lo Verde, traforatore di stampini metallici, dove «l’editore non perde l’opportunità per affermare un personalissimo concetto di bellezza e di eleganza… disorientando prima, e riorientando poi, i collezionisti e gli amatori del libro d’arte tradizionalmente inteso».
È, quella di Sellerio, una scuola dello sguardo che abbraccia l’immagine e il testo scritto, dove (riprendiamo le parole di Buttitta per un altro splendido volume della collana «I cristalli», La pittura su vetro in Sicilia) «la più umile arte ornamentale condivide il significato e le emozioni di quella intellettuale, e l’una si fonde nell’altra attraverso gradazioni impercettibili». Una scuola dello sguardo di cui oggi più che mai, e forse in Italia più che altrove, ci sarebbe disperato bisogno.
Palermo, dalla mostra all’aperto “Le vie di Sellerio”
SCHEDA
Nei testi che accompagnano le varie iniziative organizzate tra il 2024 e questo neonato 2025 per ricordare il centesimo anniversario della nascita di Enzo Sellerio, c’è una frase che viene citata di frequente e che appartiene allo stesso fotografo: «Il gioco è quella forma in cui, più di ogni altra, la vita dovrebbe essere vissuta: per questo avevo scelto la fotografia». Difficile non evocarla visitando la mostra intitolata semplicemente Antologia, allestita fino al 16 febbraio presso la Gam (Galleria d’arte moderna di Palermo) e subito dopo in programma alle milanesi Gallerie d’Italia. Un po’ perché tra i soggetti preferiti di Sellerio ci sono i bambini, capaci quasi sempre di rovesciare in gioco perfino la miseria e il dolore (e del resto quella frase, il fotografo l’ha detta a proposito di un suo scatto celebre, Fucilazione alla Kalsa, del 1960, che mostra un gruppo di ragazzini intenti a mimare un’esecuzione capitale); e un po’ perché lo sguardo di Sellerio – «homo ludens» o «ragazzo-patriarca», come lo ha definito Piero Violante ricordandolo all’indomani della morte – si sottrae a una piatta adesione a quello che ha davanti traducendosi «in una spontanea libertà di modi», secondo la bella frase di Emilio Villa nella presentazione di una mostra alla Galleria La Bussola di Torino nel 1957. Una libertà di modi che emerge in tutte le immagini della Gam, che siano di ambiente siciliano o americano, nei ritratti di artisti e intellettuali realizzati a New York. Forse per questa contagiosa libertà ha avuto grande successo a Palermo – una sorta di grande gioco collettivo – un’altra esposizione del centenario, “Le vie di Sellerio”, un percorso a cielo aperto nel centro della città che ha portato venti immagini tra le più famose del fotografo, stampate in grande formato, nei luoghi dove erano state scattate o comunque affini.
grazie Maria Teresa, di pensiero in pensiero mi fai tornare a Baumann (voglia di comunità, 2000) che non è certo dolce di sale col "nuovo cosmopolitismo" delle "persone affermate" che non hanno bisogno della comunità. Anzi, nel riprendere Dench, ci lascia di sasso nell'indicarci il tratto saliente della comunità, che istiga a uscirne chiunque se lo possa permettere... brrr
Altra questione campale posta da Maria Teresa, partire o restare, ovvero conosco, comprendo meglio andandomene in giro o restando a casa a conoscer sempre meglio "a partire dai sassi?". Neanche io ho risposte, ma mi è molto piaciuto in proposito il dilemma turista/pellegrino posto anni fa da Baumann. Il testo dovrebbe essere reperibile liberamente in rete. Andare per cercare una conferma di ciò che si pensa e si è o per essere aperti, pronti al cambiamento (proprio, non degli altri)? Peccato che questa nostra cultura dileggi un po' il pellegrinare, che accosta all'errare, al vagabondare, attività non finalizzate all'efficienza socio economica