Sulla rivista online Antinomie.it è uscito il mio dialogo con lo storico dell'arte Victor Stoichiţă. Ecco il testo, preceduto da una breve nota iniziale:
Questa intervista a Victor Stoichiţă fa parte del progetto “Variazioni su un tema dato”, con cui alla fine di giugno del 2024 ho vinto un bando per giornalisti europei dell’ICR, l’Istituto culturale romeno. Obiettivo del progetto (ambizioso ai limiti della dissennatezza, calcolando che avevo un mese, e non anni, a disposizione) era “esplorare l’attuale scena culturale romena, mettendo in luce gli aspetti che la caratterizzano di più: da un lato, l’apertura cosmopolita, legata alle peculiarità di un paese storicamente, geograficamente e linguisticamente a cerniera tra occidente e oriente; dall’altro un’identità complessa, in cui l’orgoglio per il patrimonio del passato coesiste con un’acuta consapevolezza della dialettica contemporanea centro-periferia”. Per questo, nella conversazione con Stoichiţă come nelle altre che compongono il ciclo (e che, in uscita presso varie testate, saranno poi raccolte nel sito https://mariateresacarbone.substack.com/) ho soprattutto cercato di perforare la coltre di stereotipi che ancora avvolge il paese, osservando la Romania attraverso gli occhi di alcuni dei suoi intellettuali più importanti. Tra loro due o tre – incluso lo stesso Stoichiţă – risiedono da decenni all’estero, ma questa distanza non inficia minimamente, anzi, la precisione del loro sguardo. A questo proposito aggiungo che Ritorno a Bucarest, oltre ai suoi notevoli meriti letterari, è una guida preziosa per chi, trovandosi nella capitale romena, desideri sottrarsi al cliché che vede nel mastodontico Palazzo del Parlamento (la Casa Poporului di ceaușeschiana opprimente memoria) l’unico luogo degno di nota. Anche se le vicende di cui Stoichiţă scrive risalgono a più di mezzo secolo fa, i suoi percorsi di ragazzo curioso e intelligente si possono replicare anche oggi e consentono di apprezzare il fascino di una città, forse “non molto ricca artisticamente”, e tuttavia affascinante nella sua vitalità, nella ricchezza dei suoi contrasti.
M.T.C.
MARIA TERESA CARBONE: Nell’originale francese il suo libro di memorie si intitola Oublier Bucarest, in italiano Ritorno a Bucarest (Bordeaux 2022). Dimenticare o ritornare? A cosa è dovuto questo ribaltamento?
VICTOR STOICHITA: In verità non si tratta di un vero e proprio ribaltamento, ma piuttosto dell’unica e stessa idea che regge l’intero libro, riformulata diversamente. Il titolo francese, Oublier Bucarest, paradossale certo per un libro di memorie, e da leggere a un secondo livello, puntava sull’impossibilità di dimenticare e sulla lotta acerrima con un passato che non vuole svanire completamente. Il titolo italiano, Ritorno a Bucarest, paradossale anch’esso, metteva in risalto il fatto che un possibile modo di “ritornare” alle proprie radici (forse l’unico) è appunto la tessitura di un testo, miscuglio di ricordo e di oblio, con il suo che di fantasmatico: il libro.
Devo anche aggiungere che i due titoli sono il risultato di appassionanti discussioni con i due editori, Jean-Paul Capitani, il direttore di Actes Sud, purtroppo scomparso di recente, e Dario Cimaglia, direttore di Bordeaux, che hanno dato prova di una grande sensibilità nel cogliere il senso profondo del mio proposito e per suggerirne, a seconda della lingua, la migliore risonanza linguistica, e direi quasi “musicale”, atta a trasmetterne fin dal titolo la sostanza al lettore.
MTC: Nel libro buona parte delle vicende che lei racconta si svolgono negli anni in cui Ceaușescu era al potere; eppure lei lo cita solo due volte, in un punto preciso – quando ricorda di essere andato ad ascoltare il discorso con cui nell’agosto del ’68 la Romania si dissociò dall’occupazione sovietica della Cecoslovacchia. Se, come credo, è una scelta deliberata, quali sono le ragioni?
VS: La mia “storia” inizia nel 1956, sul fondale della morte di Stalin e procede con il periodo di relativo “disgelo” post-staliniano che la seguì. Sono per lo più gli anni anteriori alla venuta al potere di Ceaușescu (1965) e il mio libro si arresta proprio nel 1968, anno della fine della Primavera di Praga e del discorso che lei cita. Ho voluto evocare gente e fatti in un’epoca di oppressione che ha avuto periodi drammatici e altri di un relativo rilassamento. Ceaușescu stesso non è stato altro che l’esponente di un’esperienza totalitaria che ha saputo abilmente sfruttare. Non ho trovato necessario evocare in modo speciale la sua figura perché ciò che mi interessava era la storia di un giovanotto alle prese col sistema, ma non i suoi esponenti. L’ancor giovane Ceaușescu vi è presente in effetti solo nel suo momento di spicco, ma certi dubbi sulla sua indole si fanno posto nelle discussioni dei tre ragazzi che, perplessi, lo ascoltano in piazza.
MTC: In una bella intervista a Andrea Cortellessa su “doppiozero” lei dice che inizialmente per il libro aveva pensato a un altro titolo, “I confini invisibili”, un concetto che riprende da Ernst Kornemann secondo cui la Dacia faceva parte di una “cintura” di territori ben concreti e che tuttavia erano appunto le frontiere invisibili dell’impero. Oggi la Romania, “europea” dal 2007, è ancora un confine invisibile? Se sì, in che senso? Se dovesse individuare un centro nel mondo contemporaneo (intendo proprio adesso, 2024), dove lo situerebbe? E quali sarebbero i suoi “confini invisibili”?
VS: Il mondo contemporaneo non ha più un unico centro e già all’inizio del nostro millennio ogni pretesa di centralità fu messa in discussione, prima, stranamente e simbolicamente a livello inconscio, quando il “centro del mondo” si raddoppiò, nelle due fantasmatiche Torri Gemelle del World Trade Center per ridursi tragicamente al nulla, nel Ground Zero.
La nostra storia recente ha ridisegnato a sua volta i confini, senza cancellarli però completamente. Per venire all’aspetto concreto della sua domanda, la Romania di oggi non è più un confine invisibile e sono contento che sia così. È, direi, un paese “come tutti gli altri” alle prese, come “tutti gli altri” (ma certo a suo modo), con un’inevitabile dialettica fra handicap e aspirazioni. Dopo la caduta del muro di Berlino, agli inizi degli anni Novanta, quando vivevo già in Svizzera, ho avuto anzi la strana sensazione, in occasione di una conferenza a Chişinău, capitale della Moldavia ex-sovietica, allora da poco indipendente, di uno spostamento geopolitico in corso e di trovarmi, ora sì, su una “frontiera invisibile”. A questo sentimento ha fatto subito seguito l’evidenza della tragedia dei paesi-cuscinetto, siti al margine di un impero. Oggi, la stessa tragedia è quella di cui è vittima l’Ucraina. Ma i tempi sono cambiati, la presenza mediatica di questo paese di “confine” è indubitabile e la sua tragedia è “invisibile” solo per quelli che preferiscono tenere gli occhi chiusi.
MTC: Sono passati 35 anni dalla caduta del regime, eppure mi pare che agli occhi del mondo l’immagine esterna della Romania non sia cambiata rispetto agli anni del comunismo: per dire, i turisti stranieri a Bucarest visitano quasi solo il Palazzo del Parlamento e alla residenza privata di Ceaușescu. Come se qualcuno, arrivando in Italia nel 1980, avesse continuato a cercare i segni del fascismo. Lei cosa ne pensa? Lo trova un paragone improprio?
VS: Le dittature lasciano purtroppo dei segni indelebili, che sfortunatamente non si potranno mai cancellare. Che fare con via della Conciliazione a Roma, o con via dei Fori imperiali? Ma non credo in effetti che i turisti, che abbondano a Roma, vengano apposta per percorrerle o, peggio ancora, siano veramente coscienti della manipolazione storica alla quale sono in questi casi sottoposti, proprio nel momento in cui si avviano verso San Pietro o verso il Colosseo, lungo queste due cicatrici mussoliniane nel vivo tessuto della città. Fortunatamente Roma offre tante altre cose da ammirare!
Il patrimonio architettonico e artistico della Romania ha tutt’altre dimensioni ed è veramente triste ridurlo ancor di più agli orrori della dittatura. Purtroppo il turismo di massa è pieno di trappole, non essendo a volte privo di un certo senso morboso, come quello che spinge alcuni a visitare i campi di Dachau o di Auschwitz “per pura curiosità”. Per non parlare poi dei “castelli di Dracula”, tutti fasulli. Si tratta di un problema di livello culturale e di politica turistica e mi piacerebbe credere che un giorno la Colonna Infinita, la Porta del Bacio e la Tavola del Silenzio di Brancusi a Targu Jiu (dichiarati di recente e con mia gioia, “patrimonio dell’umanità), oppure i monasteri della Moldavia del Nord o le città fortificate della Transilvania potranno destare l’attrazione che meritano. A questo proposito, al ciclo monumentale di Brâncuși ha dedicato un bellissimo libro Lucia Corrain, dell’università di Bologna. Intitolato Una infinita memoria, il volume è stato presentato con successo l’anno scorso a Timisoara, capitale della cultura europea nel 2023, e la sua traduzione in romeno è adesso in corso.
MTC: Nel Museo nazionale d’arte c’è una sala-memoriale dedicata al monastero Văcărești distrutto appunto negli anni Ottanta per lasciare spazio al Palazzo del Parlamento. Lei a quel tempo abitava già all’estero, ma immagino abbia seguito da fuori la vicenda. Come l’ha vissuta? Hanno senso i memoriali per le opere d’arte?
VS: Il lavoro sulla memoria è un’operazione culturalmente e politicamente essenziale che si oppone all’acre accanimento delle dittature di cancellare e di riscrivere il passato. Quando un quarto della città di Bucarest con certi suoi monumenti storici fu distrutto per fare posto al progetto faraonico della “Casa del Popolo” ero in effetti già all’estero e quello che ho potuto fare è stato ben poco: mettere la mia firma su tante proteste, ahimè inutili, accanto a quelle di altri colleghi in esilio o di certi intellettuali occidentali, sensibili a quello che si svolgeva in un paese lontano.
Il passaggio dei bulldozer sul Monastero di Văcărești poi fu per me, in quanto storico dell’arte, una perdita particolarmente triste in quanto era, in una città non molto ricca artisticamente, uno dei monumenti più significativi della vecchia architettura romena. A livello personale, l’evento fu, direi, più doloroso ancora, addirittura sconvolgente, poiché negli anni Cinquanta questo splendido complesso religioso monumentale del Settecento aveva già cambiato di funzione: vista la penuria sempre più acuta di nuove prigioni nei tempi staliniani, era stato da un giorno all’altro circondato da filo spinato e munito di sbarre alle finestre, diventando così penitenziario per i dissidenti politici. Fu lì che mio nonno materno, intellettuale social-democratico, trascorse diversi anni, poco prima della morte. Ne parlo appunto in Ritorno a Bucarest. Sarebbe stato molto bello se, dopo la caduta della dittatura, il monastero di Văcăresti fosse diventato un monumento memoriale esso stesso. Ma era troppo tardi. Una sala commemorativa nel Museo d’arte è ben poco – ma comunque qualcosa.
MTC: Nell’ambito di questo stesso progetto ho intervistato la poetessa Ana Blandiana e le ho chiesto se ha mai avuto desiderio di emigrare e la risposta è stata che non avrebbe sopportato l’idea di non poter tornare. È un sentimento che a un certo punto ha provato anche lei? Se sì, come lo ha superato? Che rapporto ha, nel vissuto, rispetto alla lingua romena? Le capita a volte di non ricordarla più?
VS: Lasciare definitivamente la propria terra è sempre una decisione difficile. Per uno scrittore significa poi anche separarsi dalla lingua materna, trauma perlopiù insuperabile. Ci sono però anche delle grandi eccezioni (Nabokov, Conrad, Cioran…), non meno drammatiche. Per quanto mi riguarda ho avuto la fortuna (o la sfortuna, secondo il punto di vista) di non essere principalmente uno scrittore ma, diciamo, “solo uomo di lettere”. Ho lasciato il paese con il sentimento strano che il paese, il mio paese, mi è stato rubato e che il mio posto è ormai altrove. Ho riflettuto, certo, molto, prima di fare il passo. Trovare una nuova patria linguistica sembra in questo caso una sfida con la quale mi sono certamente confrontato a mio modo. Ho sopportato poi l’idea di “non poter tornare”, come lei dice, nel contesto della creazione di una famiglia plurinazionale (mia moglie è spagnola e i miei figli, nati a Monaco, vivono fra Roma e Berlino, rallegrandoci con i loro soggiorni in nostra compagnia, che mi piacerebbe fossero più lunghi, in Svizzera o in Spagna) e con l’illusione di appartenere non solo a un paese, ma – se mi permette quest’espressione un po’ passata di moda – a una più ampia “Repubblica delle Lettere”, nella quale mi sento in effetti a casa. La separazione “definitiva” dalla terra natale lascia però delle tracce, e il libro intitolato Ritorno a Bucarest, dedicato ai miei figli, è una di queste.
Per quanto riguarda il romeno, la mia convinzione è che la lingua materna non si dimentica mai. La pratico quando posso, in famiglia, e quando vado in Romania. Sono qualche volta sorpreso, per non dire irritato, quando qualcuno, all’aeroporto o anche in città mi si rivolge in inglese e mi permetto allora di rispondere sorridendo e con qualche battuta tipicamente bucarestina, per mio personale divertimento, tanto grande quanto la sorpresa dell’interlocutore.
Leggo poi molto in romeno e sono al corrente, credo, delle più importanti uscite letterarie del paese. Soffro qualche volta quando, durante miei viaggi o soggiorni, in strada o in TV, osservo segni di corruzione linguistica oppure una mancanza di rispetto per una lingua il cui sapore e fascino apprezzo ancor di più da quando vivo all’estero. Le lingue hanno, lo so, la loro evoluzione, ma ciò che non significa che una buona politica culturale non debba stare all’erta.
MTC: Ancora nell’intervista a Cortellessa che ho citato prima lei si definisce “irriducibilmente europeo”. Non parlerò di identità, ma quali sono i tratti che secondo lei distinguono un europeo da un americano o da un orientale?
VS: In quell’intervista alludevo proprio a un milieu culturale che non è solo geograficamente “europeo”. Molte università americane, soprattutto quelle della costa orientale che conosco un po’ meglio, sono in effetti oasi di cultura prettamente europee. Ho resistito però alla tentazione di prenderci radici, malgrado inviti allettanti, perché il campus americano stesso mi è apparso come un affascinante impianto in un suolo che non era proprio il mio, e che il mio mondo era in effetti molto diverso da quello della vera America, dall’America profonda.
Mi guarderei dal marcare ora con troppa precisione le differenze, aggiungendo al contrario che tutte “le differenze” mi appassionano e che ne ho sempre imparato moltissimo, sia nei miei peripli europei sia in quelli americani o asiatici, pur rimanendo fatalmente eurocentrico. Probabilmente, pur essendo fondamentalmente un esiliato, il mantenere delle radici qui, nella nostra vecchia Europa, si è rivelato come una garanzia di equilibrio psico-fisico. Si tratta forse di una delle mie debolezze che fatalmente accetto.
A volte ho avuto occasione di ricevere delle sorprese. Il mondo accademico nipponico, per esempio, mi ha onorato con una inaspettata accoglienza, mettendo in circolazione, in una lingua a me completamente incomprensibile, la maggior parte dei miei libri. Chiedendo una volta a un collega di Kyoto quale sarebbe, secondo lui, la spiegazione di questo interesse, mi rispose: “…il suo esotismo”.
MTC: Moltissimi intellettuali romeni del passato e del presente non vivono in Romania. Userebbe per loro la parola “diaspora”? Considera queste emigrazioni come un tratto distintivo della cultura romena? Che rapporto ha con gli intellettuali romeni che sono rimasti nel paese?
VS: Personalmente non uso la parola “diaspora”, che rimane per me connotata storicamente. Conosco, certo, molti degli intellettuali romeni che vivono all’estero e ho dei legami stretti con quelli che durante gli anni più difficili della dittatura hanno resistito senza lasciare il paese, contribuendo poi alla sua ricostruzione culturale, e seguo con altrettanto interesse la nuova generazione, nata dopo il 1990. Ho molte speranze, che malgrado le inevitabili difficoltà di una lunga (a volte troppo lunga) transizione, questi giovani potranno dimostrare che non c’è in fin dei conti nessuna contraddizione e nessuna difficoltà di essere allo stesso tempo romeni ed europei.