Pseudocartolina dalla Corea
La missione del Nobel, "La vegetariana" di Han Kang nella versione teatrale di Daria Deflorian
Adesso, non è che voglio fare l’esaltazione della Silicon Valley e del potere che le società impiantate laggiù esercitano su tutti noi. Anzi, mi sembra incredibile, per esempio, che in Italia scuole e università si appoggino a Microsoft o a Google, senza chiedersi quali sono gli effetti collaterali di questo rapporto. E non parliamo della paura che mi fa Elon Musk, aspirante tecnopadrone dell’universo, ora che Trump è stato eletto. Ma da persona nata quando telefonare in un'altra città italiana richiedeva ore e una ricerca d’archivio poteva durare mesi, trovo stupefacente che la mia casella Gmail mi abbia riconsegnato in un nanosecondo un messaggio ricevuto quasi vent’anni fa. Quanto resisterà nel tempo quel messaggio non so. Sono catastrofista per natura, e penso che tra altri vent’anni la nuvola in cui conserviamo le nostre memorie si sarà dissolta e con lei gran parte del nostro passato. Per ora, però, la nuvola c’è, e mi ha fatto piacere rileggere una vecchia email dell’orientalista Maurizio Riotto datata 12 ottobre 2005. Quell’anno la Corea era paese ospite alla Buchmesse di Francoforte e in allegato c’era un articolo destinato al Manifesto e pieno di informazioni interessanti sulla situazione editoriale e letteraria coreana di allora. Ne riporto due o tre righe, chiedendomi se il quadro è rimasto lo stesso: “In Corea del Sud, paese che pur se ipertecnologico presenta uno straordinario numero di editori e uno smisurato amore per la lettura del materiale cartaceo, quando un romanzo va ‘così così’, vende duecentomila copie, quando va bene più di un milione”.
L’articolo di Riotto che cercavo, però, era un altro, uscito sempre sul Manifesto qualche mese dopo, nell’agosto 2006. L’ho ritrovato con la stessa rapidità prodigiosa e ne trascrivo un brano più lungo, perché dentro ci sono cose che riguardano l’oggi: “Da sempre la Corea del Sud insegue disperatamente un Premio Nobel ‘vero’ (quello per la pace assegnato a Kim Taejung nel 2000 è considerato un contentino), e l’immensa tradizione umanistica di questo Paese fa sì che il Nobel per eccellenza sia considerato quello per la letteratura. Poco importa che il Nobel sia spesso qualcosa di artificioso e strumentale: alla Corea del Sud, ormai decima potenza mondiale, è qualcosa che ‘manca’ per un definitivo ingresso nel novero delle ‘nazioni che contano’, tanto più che gli odiati rivali giapponesi di Nobel per la letteratura ne hanno già vinti addirittura due, con Kawabata e Ōe. Ecco dunque mettersi in moto una gigantesca macchina organizzatrice, gravitante (col beneplacito governativo e dei principali circoli letterari) intorno al locale PEN Club e altre istituzioni culturali a capitale privato o misto alle quali i fondi non fanno certo difetto. Un gran lavoro di squadra e fin qui niente di male. I problemi sorgono nel momento in cui occorre scegliere i candidati, attualmente identificabili in Hwang [Sok-Yong] per la narrativa e Ko Ǔn per la poesia. Qui si scontrano fatalmente gli interessi e i sentimenti: peggio, si arriva a strumentalizzare il letterato facendogli credere che è il migliore di tutti: l’importante, tanto, è prendere il Nobel, che a questo punto rappresenta un vero e proprio premio alla Nazione e una questione di puntiglio”.
Ci sono voluti altri vent’anni o quasi, ma finalmente, nel 2024, la Corea del Sud ha realizzato il suo sogno con la vittoria di Han Kang - conosciuta e tradotta all’estero (qui per Adelphi), ma non una nobellizzanda agli occhi del suo paese, tanto è vero che il giorno dell’annuncio nessun giornalista si è appostato davanti alla sua porta per captare le sue reazioni in caso di vittoria. Lo ha raccontato il critico Alex Taek-Gwang Lee in un articolo uscito su e-flux e su cui mi sono in parte basata per la mia rubrica Express (@ilmanifesto) della settimana scorsa, che copioeincollo in basso. Anche Lee, come nel 2006 Riotto, scrive che il Nobel era diventato per la Corea del Sud “una missione nazionale per ottenere un riconoscimento culturale globale”. O un’ossessione, forse.
Ci ho ripensato qualche giorno fa (da lì la ricerca degli articoli di Riotto), dopo avere visto al Teatro Vascello la versione teatrale de La vegetariana di Han Kang diretta da Daria Deflorian e interpretata da lei insieme a Gabriele Portoghese, Paolo Musio e Monica Piseddu. Lo spettacolo faceva parte del cartellone del Romaeuropa Festival, e adesso è all’Odéon, a Parigi, per il Festival d’automne, poi andrà a Milano e a Torino, e di sicuro altrove. Lunghi, fragorosi, più che meritati, gli applausi l’altra sera.
Confronti con il libro non ne faccio perché il passaggio dalla pagina a una dimensione fisica comporta la nascita di un oggetto comunque diverso, e perché finora il romanzo di Han Kang l’ho solo rapidamente sfogliato. Amici che lo hanno letto mi dicono che la regista (e autrice dell’adattamento con Francesca Marciano) ha colto molto bene l’essenza del romanzo, il senso di minaccia e di violenza che lo attraversa e a cui ci si può opporre, sembrerebbe, solo con una scelta di radicale sottrazione. Conoscendo un po' il lavoro di Deflorian e la serietà (una parola che, a scriverla, mi suona desueta) con cui costruisce i suoi spettacoli, non ne sono sorpresa. De La vegetariana ho trovato stupendo il modo in cui gli attori, tutti eccezionalmente bravi, si muovono in uno spazio scenico spoglio eppure denso, attraversato da luci oblique, simili ai fantasmi che affollano la mente della “vegetariana” e che la spingono verso un rifiuto della carne intesa come umanità: sempre più sicura, dunque, la traiettoria di lei, a contrasto con le esitazioni, gli andirivieni, i sussulti degli altri che la osservano senza capire, solo - nel caso della sorella, interpretata da Deflorian stessa - accettandola e amandola. Ed è moltissimo.
Leggerò il libro, e anche Atti umani, sul massacro di Gwangju, la città dove Han Kang è nata nel 1970 e dove dieci anni dopo l’esercito sudcoreano ha ammazzato centinaia o migliaia di persone che protestavano contro la dittatura allora al potere (per capire La vegetariana, leggere Atti umani è indispensabile, ha detto Deflorian in alcune interviste). Ma intanto mi colpisce quanto è lontano l’accanimento dell’ufficialità coreana nel perseguire il Nobel dalla scelta di Han Kang di avere come perno del suo romanzo un personaggio che è stato paragonato al Bartleby di Melville nel suo “preferirei di no”. E mi colpisce anche di più il “preferirei di no” della società sudcoreana, dove non nascono bambini (è il paese con il tasso più basso di natalità nel mondo, pare che nel 2024 si sia scesi allo 0,68 per donna, contro lo 0,78 di due anni fa, nonostante abbiano creato un ministero apposta) e dove in tanti scelgono di uccidersi (tra i membri dell’Ocse ha il più alto tasso di suicidi, prima causa di morte nella fascia 10-39 e in alto anche fra i vecchi che non vogliono pesare sui figli).
Vorrei sapere di più, non questi brandelli raccattati qua e là o certi fotogrammi sparsi, la pioggia di Parasite e le campagne incerte di Burning, e nemmeno il tentativo astratto di immaginare cosa significa essere nati in un paese che da tre o quattro generazioni è in guerra permanente e congelata con l’altra sua metà. Apro il libro di Maria Anna Mariani, Dalla Corea del Sud (ExOrma 2017), guida “parzialissima, irrequieta e meteoropatica” di un “paese misterioso che sulla mappa è a forma di tigre e come una tigre balza in avanti col suo PIL che si espande feroce”, e a pagina 17 trovo quella che forse è la scheggia di una lezione nel college non lontano dalla linea di confine con la Corea del Nord, dove Maria Anna ha insegnato italiano per quattro o cinque anni: “Non posso farvi vedere le mie ossa, non posso davvero. Le mie ossa sono bianche e lisce e dure, stanno sotto la pelle. Pibu è pelle, e mi tocco la faccia, mi pizzico le guance e poi gli avambracci. Sotto come si dice? Haré, mi pare si dica haré. E allora pibu haré e trovate le ossa. Capito? Capito cosa sono le ossa? Al singolare è osso, però, attenti, cambia sesso questa parola, è strana, vero? E intorno alle ossa c'è il sangue rosso e poi i muscoli feroci e i nervi che sono sempre un guizzo, sempre”.
Nobel, fra identità e collettive celebrazioni
Questo articolo è uscito sul quotidiano il manifesto giovedì 31 ottobre 2024.
Di solito gli incontri letterari, soprattutto se i protagonisti sono autori affermati, seguono un copione preciso: domande che si sforzano di essere argute, educate e originali, e risposte in cui il probabile fastidio per dover ripetere sempre le stesse cose è nascosto da uno spesso strato di amabilità. A volte, però, il copione viene disatteso: è successo giorni fa al festival Filit di Iasi, in Romania, durante il dialogo con lo scrittore tanzaniano, naturalizzato britannico, Abdulrazak Gurnah, la cui fama globale è esplosa nel 2021, quando gli è stato assegnato il Nobel per la letteratura.
Contravvenendo le regole del “politicamente corretto” e pure del vecchio galateo, qualcuno ha chiesto a Gurnah se non gli era venuto il dubbio che il premio fosse legato anche alla sua provenienza africana. Con mirabile aplomb lo scrittore ha risposto che a quanto gli consta la commissione del Nobel valuta i testi e che personalmente si augura che la sua opera si inserisca bene fra quelle che in oltre un secolo hanno ricevuto il più famoso fra i riconoscimenti letterari.
L’episodio si può rubricare alla svelta tra gli inciampi in cui possono incorrere senza colpa gli organizzatori di un festival, e tuttavia vale la pena citarlo, perché rivela una contraddizione che caratterizza tutti i premi letterari, e in particolare il Nobel, con la sua aura di onorificenza planetaria. La mette in risalto con acume Alex Taek-Gwang Lee, docente di Cultural Studies alla Kyung Hee University, in un articolo uscito su e-flux. Lo spunto, in questo caso, deriva dalla quantità di complimenti e felicitazioni ricevute da Lee all’indomani dell’assegnazione del Nobel alla sua connazionale Han Kang, un fenomeno – nota lo studioso – che “denota qualcosa di più profondo della pura confusione: come le conquiste culturali diventino marcatori di identità condivisa, trasformando i trionfi individuali in celebrazioni collettive”.
Il premio Nobel, scrive Lee, riflette più degli altri “la perdurante tensione fra nazionalismo e cosmopolitismo, una dicotomia le cui radici risalgono al pensiero illuminista”. In questo senso il gran rifiuto del premio di Stoccolma da parte di Jean-Paul Sartre nel 1964 non va letto solo come “un gesto personale, ma come una precisa dichiarazione d’intenti per evidenziare il rapporto fra creazione artistica e riconoscimento istituzionale”. Molti anni dopo, Ursula Le Guin (che tra l’altro nel ’76 disse di no al Nebula Award per protesta contro l’esclusione di Stanislaw Lem dai Science Fiction Writers of America) avrebbe proposto ironicamente la creazione di un Premio Sartre per i rifiuti dei premi, citando d’altro canto il caso di José Saramago, che invece il Nobel lo aveva accettato, per mostrare che fra riconoscimenti letterari e integrità politica e morale non c’è per forza di cose conflitto.
L’assegnazione del Nobel a Han Kang, però, è la prova, secondo Lee, di quanto il groviglio sia stretto: da un lato abbiamo un paese, la Corea del Sud, per cui il premio dell’Accademia di Stoccolma era diventato “una missione nazionale per ottenere un riconoscimento culturale globale”; dall’altro c’è un’autrice che, prima di essere scoperta su scala internazionale, era stata emarginata perché la sua opera “non rispecchia le aspettative convenzionali della ‘letteratura nazionale’ in termini di stile, temi e impostazione”. In questo senso “l’ansia dell’establishment culturale sudcoreano di rivendicare il successo di Han Kang come un trionfo dell’infrastruttura letteraria nazionale feticizza la letteratura come strumento di prestigio del paese piuttosto che apprezzarla come forma d’arte”. Un paradosso che, senza troppo sforzo, può valere pure fuori dai confini della Corea del Sud.