Non passa giorno che non inciampi nella vecchiaia. In quella mia personale (sperando che l’inciampo resti metaforico) tutte le volte che sull’autobus un giovane gentile, inconsapevole che un giorno - se gli va bene - toccherà pure a lui, si alza per cedere il posto all’aliena decrepita che sono io ai suoi occhi; o quando al cinema, dopo avermi dato una rapida occhiata, la cassiera stacca il biglietto ridotto over 65; o come ieri, per l’arrivo della tessera che mi consentirà di girare gratis sui treni e sulle corriere del Lazio - dono non richiesto e non disdegnato di Francesco Storace, ex missino e ora, credo, leghista, al tempo in cui era presidente della Regione.
Più spesso, però, inciampo nella vecchiaia collettiva del paese e della parte di mondo in cui vivo: così evidente da essere ormai un “tema”, come si dice di tante cose serie e gravi che ci riguardano, ma che diventano, con questa definizione studiosa, meno inquietanti e si aprono a un vano blabla in cui si inserisce anche questa cartolina (in parallelo, l’antico “problema”, forse legato nel ricordo a troppe equazioni non risolte, è stato soppiantato dalla più scintillante “sfida”).
Il punto è che siamo in tanti, vale a dire troppi, anche se non è colpa nostra. Siamo tanti, perché nell’arco della nostra vita si è estesa l’aspettativa di vita, come un elastico che si allunga a sorpresa (fino a quando?). E siamo tanti, perché eravamo tanti da giovani, noi figli del dopoguerra e del boom e di un benessere che si è rivelato effimero. Non ho pazienza per certe recriminazioni di quelli che sono arrivati dopo - “siamo la prima generazione che sta peggio di quella dei genitori”: ma cosa dite? possibile che non riusciate a guardarvi indietro oltre qualche decennio? - eppure provo dolore per chi si ritrova a far parte di una minoranza vissuta come una condanna. Forse è un fantasma della vecchiaia, ma se ripenso alla me dodicenne che ascoltava Penny Lane, ritrovo intatta la confusa, e tuttavia chiarissima, eccitante sensazione di far parte di un’onda montante - quella che, mi pare, i miei figli non hanno sentito e temo non sentiranno i miei nipoti, se mai ci saranno. (Incidentalmente, a proposito di sensazioni e di generazioni, l’altra sera al Greenwich, mentre sullo schermo scorrevano le prime immagini di quell'oggetto strano e affascinante che è Grand tour di Miguel Gomes, ho pensato com'è bello essere nata quando sono nata e avere conosciuto il cinema, che non c'era 150 anni fa e non ci sarà fra 150, e alla fine del film l’ho detto ad alta voce a Cristina, e il ragazzo solo e timido seduto davanti a noi mi ha sorriso e poi ha detto “Concordo” prima di scappare via).
Torno alla vecchiaia e a quanto se ne parla e a quanto però è difficile parlarne, quando la parola stessa, “vecchio”, “vecchia”, suona offensiva o indecente. Ci si arrampica sugli specchi per non dirla: fossimo in America, ce la caveremmo con “la parola V”, qui giochiamo con i sinonimi, a partire dal da me aborrito “anziano”. (Aborrito per quello che contiene di farisaico e stucchevole, e pure per l’etimo: anziano è chi è vissuto prima, ante, e questo non lo nego, tutt’altro, ma vorrei pensare di vivere anche nell’oggi - presente, ancorché vecchia, vetus).
Così, La vie secrète des vieux, spettacolo del Romaeuropa Festival andato in scena al Teatro Vascello un paio di mesi fa, è diventato La vita segreta degli anziani. Traduzione sbagliata, che annacqua il senso di un lavoro interpretato quasi solo da vegliardi decisi a esporre e rivendicare la loro vitalità sentimentale e erotica. Sai che scoperta, ho pensato, ricordando un vecchio a me caro, che poco prima di morire si era acceso di passione rinnovata per la moglie con cui aveva trascorso più di sessant’anni. E però, sentendo le risate (affettuose? imbarazzate?) del pubblico e osservando i movimenti in scena del regista e ideatore, il quarantaquattrenne Mohamed El Khatib, mi sono detta che forse chi guarda alla vecchiaia con il cannocchiale, come un territorio lontano e straniero, si immagina che, superata una certa età, avvenga una mutazione e che chi è dentro quel vecchio guscio diventi altro da sé.
(Per caso, lo stesso giorno in cui ero andata al Vascello per La vie secrète des vieux, ho visto pure The Substance di Coralie Fargeat. Del film mi è rimasto nella retina il giallo primario - yolk yellow, secondo “Vogue” - del cappotto di Demi Moore, nelle orecchie l’It’s me, it’s still me nel sottofinale, “Sono io, sono sempre io”, il grido disperato della ormai mostruosa protagonista, parodia estrema della vecchiaia tanto temuta e avversata. Scoprirsi esteriormente irriconoscibili a sé prima ancora che agli altri, è la pena più grande, e il male gaze, lo sguardo maschile, c’entra poco: il nemico è lo specchio, come ci insegnano la matrigna di Biancaneve e Greta Garbo).
Comunque, tra i vari modi per evitare la V-word in cui mi sono imbattuta di recente oltre a quelli banali (il grigio, l’argento, l’over, il più, il senior…), ce n’è uno che non mi dispiace, ed è “l’età tarda”, trovato in un libro della psicoanalista Maria Luisa Algini, appunto Viaggiare l’età tarda (Mimesis), che ho presentato con l’autrice qualche settimana fa al Casale dei Cedrati. Non mi dispiace per due motivi: non è un eufemismo, e si collega deliberatamente allo “stile tardo” come lo aveva definito Edward Said. Per Algini, però, al centro ci sono soprattutto le intuizioni e le conoscenze la cui maturazione ha richiesto tempi più lunghi, mentre a me pare che l’elemento dominante di questa “età tarda” sia una inattesa indocilità, un voler essere contrattempo quando il mondo intorno si aspetta da te sottomissione e disciplina.
Mi ricorda, questa ribellione senile, un altro film visto da ragazzina, La vieille dame indigne di René Allio, che mi era piaciuto molto allora e penso mi piacerebbe ancora, e in quel caso gli irreggimentatori erano i figli, come a volte cercano di essere e infine quasi sempre sono. E in una catena di rimandi, ecco il racconto di Tol’stoj Il vecchio e il nipotino nel primo dei suoi Quattro libri di lettura, letti e riletti da bambina. E’ breve, e lo riporto per intero:
Il nonno era vecchissimo. Le gambe non gli reggevano più, gli occhi non vedevano, le orecchie non sentivano, non aveva più denti e mangiando, sbavava. Il figlio e la nuora smisero di farlo sedere a tavola e lo mandarono a mangiare dietro la stufa. Un giorno gli portarono il cibo in una scodella. Tentando di prenderla, il vecchio la fece cadere e la scodella si ruppe. La nuora cominciò a insultarlo, rimproverandogli di guastare tutto in casa, di rovinare le stoviglie e disse che d’ora in poi gli avrebbe dato da mangiare in una ciotola di legno. Il vecchio sospirò e non disse nulla. Un giorno che il contadino e la moglie erano a casa videro il loro bambino giocare con dei pezzi di legno che cercava di mettere insieme. Il padre chiese: «Cosa fai, Misha?». Misha rispose: « Fabbrico una ciotola, così quando tu e la mamma sarete vecchi, mi servirà per darvi da mangiare». Il contadino e sua moglie si guardarono e scoppiarono a piangere. Si vergognarono di come avevano trattato il vecchio, lo fecero sedere a tavola e lo circondarono di cure.
Non commento. Il vecchio racconto di Tolstoj mi serve soprattutto per ricordare a me stessa che nel “continente ostico” della vecchiaia (così lo chiama Algini) ci sono tante situazioni diverse: i vecchi “mandati dietro la stufa”, quelli che cercano di scappare lontano (come fece lo stesso Tolstoj), quelli che esplorano nuove possibilità: in questi giorni è uscito - ma non l’ho letto e non credo che lo leggerò - un libro a quattro mani di Erri De Luca e Inès de la Fressange intitolato L’età sperimentale, e nella scheda di presentazione si parla dello “slancio del tempo accumulato, potente catapulta del participio passato del verbo passare” e della “possibilità di scoprire qualcosa di nuovo di sé e degli altri, di allenare il corpo e la mente con maggiore consapevolezza e forse con più gusto”.
Le lezioni di vecchiaia si moltiplicano, ed è normale visto che il mercato - se non altro in termini numerici - promette bene. Nel 1970 l’età media in Italia era 32,7 anni, oggi siamo quasi a 48 e un quarto dei cittadini, me inclusa, ha superato i 65. Ma qualcosa del genere sta succedendo ovunque, e il previdente “Washington Post” ha appena lanciato una nuova newsletter, A User's Guide to Aging, a cui naturalmente mi sono iscritta di corsa. Spero di imparare qualcosa, e soprattutto di non desiderare mai, neanche per un momento, l’immortalità. (Orgogliosamente diversa in questo e, spero, in molto altro da Elon Musk e dalla banda di ormai ex giovanotti della Silicon Valley).
Che brava, questo è un tema importante per tutti. Mai cosi tanti over 65 nel mondo ma mai cosí tanti giovani come ce ne sono oggi per effetto della crescita della popolazione. Oltre 2 miliardi sono giovanissimi e occorre un dialogo nuovo fra generazioni.